Abstract:
Partendo dai cambiamenti nella produzione industriale nelle diverse parti del mondo, la relazione tende a mettere in dubbio il fatto che il massimo livello di terziarizzazione dell’economia sia sempre positivo. Prima di tutto (a differenza di quanto avveniva per l’esodo dell’agricoltura) il valore aggiunto dell’industria manifatturiera è in media più elevato di quello del terziario (preso nella sua totalità e non solo nei servizi finanziari). In secondo luogo l’attività manifatturiera moderna è uno strumento necessario anche per l’aumento della produttività del settore terziario. Queste constatazioni obbligano a chiederci se il processo di deindustrializzazione non sia andato troppo avanti in Europa, soprattutto in alcuni paesi europei, a partire dalla Gran Bretagna. Anche se sono necessarie ulteriori analisi empiriche in proposito, sembra infatti profilarsi l’ipotesi che una diminuzione eccessiva della presenza industriale possa portare anche ad una caduta di efficienza delle imprese ancora attive. Pur non essendo in grado di definire il livello minimo di attività industriale sembra tuttavia utile approfondire la veridicità dell’ipotesi che i processi di deindustrializzazione tendano ad autoalimentarsi. Questo sembra essere il risultato delle tendenze sviluppatesi negli ultimi decenni nei diversi paesi europei dove l’industria manifatturiera si è andata progressivamente concentrando in un “cilindro” che dal mare del Nord scende fino a Firenze. Una localizzazione che rafforza enormemente la bilancia commerciale dei paesi a forte vocazione industriale rispetto a quelli che sono prepotentemente passati al settore terziario. Pur con i punti interrogativi aperti dalla presente crisi economica, la relazione tende a concludere che l’Europa ha la necessità di rivalutare l’aspetto “produttivo” della propria economia e anche di ritornare a parlare di “politica industriale”, purché questo non sia la scusa per scivolare verso sciagurate politiche protezionistiche